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AMABILI DICE BASTA!!! Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne – 25 novembre

La violenza contro le donne è ancora purtroppo una realtà quotidiana, tanto da meritare una giornata internazionale dedicata alla lotta per eliminare questa piaga. L’Organizzazione Mondiale della Sanità rivela che nel mondo il 35% delle donne ha subito violenza. La crisi sanitaria che stiamo vivendo ha accentuato il problema: i dati Istat mostrano una forte crescita del numero di telefonate al 1522 nel primo periodo di lockdown in Italia. La violenza sulle donne ha diverse forme e modalità: quella fisica è più facile da riconoscere e sovente ci si concentra solo su di essa, ma esistono anche la violenza psicologica e quella economica. La violenza, in tutte le sue forme, si radica e progredisce nella disuguaglianza e nella discriminazione. Il quinto obiettivo dello sviluppo sostenibile ONU è l’uguaglianza di genere, un impegno importante.*

Disegno di Elena Galati Giordano

In occasione della “Giornata Mondiale contro la violenza sulle Donne”, Amabili Letture decide di lottare e gridare a gran voce un forte e deciso BASTA!!!!! Lo fa al fianco di un Uomo che stimiamo enormemente, non solo per il suo indubbio talento da scrittore, ma soprattutto perché un UOMO che dice BASTA!!! è ciò di cui la società ha bisogno. La voce di un uomo che propone, in prima persona, un modo per far capire quanto sia importante che tutte queste violenze smettano all’istante di esistere è stata per noi fonte di speranza e di immensa gratitudine!

Vogliamo perciò ringraziare Filippo Mammoli per averci proposto l’occasione di farvi leggere il suo racconto contro la violenza sulle donne.

Filippo Mammoli

Il racconto di Filippo nasce da un disegno di Elena Galati Giordano (che potete vedere sopra) sua amica, disegnatrice e blogger. Questo disegno ha ispirato Filippo nel raccontare la storia di una donna che lui ha immaginato potesse essere quella raffigurata nel disegno. Nasce così la storia di Blessing, schiava nigeriana, schiava della strada. Lasciamo ora a lui la parola, ringraziandolo ancora, davvero di cuore. Buona Lettura

“Non accadrà più. Mai più. Con lo sguardo puntato fuori dal finestrino verso il paesaggio che oscilla al ritmo delle asperità della strada sterrata, posso dirlo con certezza. Quella certezza che credevo di avere smarrito per sempre fino a un paio di settimane fa. Ma guardo avanti. Devo farlo. Dopo aver attraversato tutti i gironi dell’inferno, non può spaventarmi più nulla. So solo che non posso voltarmi indietro, perché il baratro è ancora troppo vicino e la vertigine rischia di farmi vacillare di nuovo.
Mentre mi avvicino a casa con l’animo festante, non posso fare a meno di andare con la mente a Fatimah. A stento riesco a credere che lei, amica di famiglia, guaritrice che frequenta la chiesa, amata e rispettata da tutti, mi abbia procurato il biglietto di sola andata per l’incubo.
Mi avvicinò una mattina per chiedere un favore.
Avevo concluso da poco gli studi di informatica e sognavo di guadagnarmi un futuro senza fame e povertà. Così mi presentai a casa sua la mattina seguente.
«Buongiorno Blessing, posso offrirti qualcosa per colazione?» chiese con i suoi modi da donna raffinata e gentile.
«No grazie signora, ho già mangiato». Non era vero, ma non volevo umiliarmi.
«Allora andiamo di qua, ti faccio vedere subito qual è il problema.»
Mi mostrò un piccolo tavolino, dove c’era un computer acceso.
«Da ieri non è più possibile collegarsi a internet, e a me serve per lavorare.»
Furono sufficienti due minuti. La prima occhiata andò subito alla data di sistema. Si era resettata al 1 gennaio 1971.
«Ecco, adesso dovrebbe andare. Ma prima che succeda di nuovo, dovrebbe cambiare la batteria della scheda madre, deve essere esaurita.»
Mi guardò con ammirazione sincera.
«Brava la nostra Blessing, l’ho sempre detto a tua madre che ci avresti dato delle soddisfazioni! Tu sei sprecata qui.»
Non ero abituata a ricevere complimenti, così abbassai la guardia fino a trovarmi in suo potere. A lei non sfuggì questo particolare e approfittò per affondare il colpo.
«Mio cugino Kamal lavora in Italia, a Roma. È proprietario di un’azienda di servizi informatici e sta cercando persone di fiducia per ingrandire il giro. Basta conoscere l’inglese e la basi del computer. Tu saresti perfetta.»
Mi colse di sorpresa. Non ero preparata a questa eventualità, almeno non subito. Avevo fantasticato molte volte sul fatto di andare a lavorare in Europa. Cercai di mascherare l’imbarazzo, ma risposi balbettando.
«G-g-grazie davvero, ma non saprei… E quando sarebbe?»
«Domani. Prendere o lasciare. Altrimenti dovrò cercare qualcun altro. Devi solo decidere, anche se al tuo posto io non perderei molto tempo.»
Il suo sguardo accusatore e sprezzante mi fece sentire pavida e inadeguata. Mi stava offrendo un’opportunità unica e io ero titubante, assalita da mille dubbi e mille paure. Provai vergogna.
«Non devi rispondere subito» disse allora cambiando tono e diventando d’un tratto conciliante «è giusto che tu sia convinta. Ma questo è un treno che non passa una seconda volta. Prima di mezzogiorno devi darmi una risposta per preparare i documenti e organizzare il viaggio.»
Mentre pensavo che avrei dovuto parlarne con mia madre, sentivo che la decisione era già presa. Così il mattino seguente, all’alba, mi trovai a salire su un camion che mi avrebbe portato da Benin City all’aeroporto di Lagos. Tutto quello che avevo in mano erano un visto lavorativo valido per due anni e il nome di Kamil. Mia madre mi aveva salutato abbracciandomi con una violenza inusuale.
Mi aveva poi guardato piangendo.
«Vedo grandi cose nel tuo futuro. La mia Blessing diventerà qualcuno, me lo sento.» Sapevo di lasciarla sola con tre figlie, tutte più piccole, e una sola di loro lavorava. Nostro padre era scappato in Libia cinque anni prima, e da allora non ci aveva fatto più avere notizie di sé. Avevo il cuore in gola e la testa piena di domande, ma mi imposi di credere alle parole di quella donna meravigliosa. Quando atterrai a Barcellona trovai ad aspettarmi un signore spagnolo, forse si chiamava Cleiver.
Mi fece salire su un pullman insieme ad altre ragazze provenienti dalla Nigeria e dal Ghana.
Sognavano tutte di lavorare come parrucchiera o baby sitter.
«Quanto ci vorrà ad andare a Roma?» chiesi a quel signore dall’aspetto torvo. Lui mi fulminò con lo sguardo e sputando alcune parole in un inglese incerto, mi fece capire che era meglio per me se rimanevo zitta e buona. I sorrisi e le battute amichevoli lasciarono il posto a facce serie e sguardi bassi. La paura divenne palpabile. Mi aggrappai alla speranza con tutta me stessa. In fondo Fatimah era una persona di cui fidarsi a occhi chiusi.
Quando scesi dal pullman però, vidi il mio sogno svanire nulla. La disperazione parlò per me.
«Io devo andare a Roma, c’é Kamal che mi sta aspettando!»
Uno schiaffo in pieno volto ricevuto da un uomo basso e grasso fu una risposta eloquente e mise a tacere ogni mio dubbio.
Mi trovavo a Napoli e da lì mi portarono a Castelvolturno.
Non c’era nessun Kamal e nessun lavoro di assistenza informatica.
Ci sbatterono tutte e venti in uno stanzone dai muri bassi e scrostati, con i materassi lerci buttati sul pavimento e con un unico bagno sporco e maleodorante. Un nigeriano di nome Mahmud si presentò portando del cibo e un po’ d’acqua.
«Posso farti una domanda?» osai dire.
Mi guardò senza rispondere, con atteggiamento di sfida. Ma io non mi feci intimorire, dovevo conoscere quale destino ci aspettava.
«Che lavoro pensate di trovarci? Io sono venuta qui per occuparmi di assistenza informatica. Come pensate di pagarci?»
Nel frattempo era arrivato anche un altro uomo, probabilmente italiano.
Si avvicinarono insieme minacciosi, poi Mahmud avanzò fino a fermarsi a pochi centimetri dal mio volto e iniziò a sbraitare.
«Sei tu che devi dei soldi a noi! Hai un debito di cinquantamila euro che dovrai pagare lavorando in strada. Fino a quel momento sei nostra. Ti consiglio di non fare cazzate e di non provare a scappare. Qua sono tutti dalla nostra parte.»
Il mio sogno più grande si era trasformato nel peggiore degli incubi.
Per un mese intero mi costrinsero a passare le notti sul marciapiede dello stesso viale, nell’attesa di qualcuno a cui vendere la mia parte più intima e preziosa. Ero ostaggio di uomini spregiudicati e senza scrupoli. Mi sentivo schiava e non vedevo via d’uscita.
Uomini di ogni età volevano solo divertirsi con il mio corpo. Io come persona, io Blessing, non esistevo più.
A poco a poco iniziai a sentirmi sporca dentro e provare repulsione per il mio stesso corpo. Mi sentivo dilaniata e smembrata nella mia essenza. Un distacco così doloroso che mi ha scavato dentro una voragine senza fine.
La mattina non dormivo che pochissime ore. Di giorno riuscivo a malapena a mangiare.
Tutte le sere, prima di uscire in strada, dovevo andare nel bagno a vomitare, anche due o tre volte.
Una notte si fermò da me la macchina di un uomo nigeriano. Pensai subito che lo avesse mandato Dio in persona per salvarmi. È finita, pensai. Non riuscii a trattenere le lacrime.
«Devi aiutarmi ti prego, portami via da qui! Sei nigeriano anche tu vero? Da dove vieni? Siamo fratelli, non abbandonarmi!»
Mi guardò stupito. Non si aspettava una reazione del genere. Lessi delusione nel suo sguardo. La sua bella scopata che credeva di meritarsi pagando, era andata in fumo.
«Sono di Sapele, ma ormai vivo qui da cinque anni. Senti, mi dispiace tanto, davvero.»
Fermò la macchina e accostò a destra.
«Ma queste non sono cose che mi riguardano!» mi disse con tono piatto mentre apriva lo sportello e mi scaraventava sul marciapiede. Mi lanciò una banconota da cinquanta euro e poi ripartì sgommando.
La sera successiva ero al culmine della disperazione e allo stremo delle forze. Il primo cliente era un ragazzo poco più che ventenne.
«Ciao bella» mi disse.
«Portami alla Polizia, non riportarmi su quel marciapiede» gli dissi subito sperando che capisse l’inglese.
Mi guardò senza scomporsi, poi fece un cenno affermativo con la testa.
Dopo avermi usata come tutti gli altri, mi portò davanti al commissariato. Prima di andarsene mi fece capire che non voleva essere coinvolto in alcun modo.
Un commissario anziano e pieno di umanità ascoltò tutta la mia storia di violenza e soprusi intervallata da singhiozzi e conati di vomito.
L’intera organizzazione fu sgominata e tutte le ragazze vennero liberate dalla peggiore schiavitù che esista nell’occidente opulento e civile del terzo millennio.
Rimasi ospite per una settimana dalle suore orsoline di una casa di accoglienza del centro di Caserta, mentre collaboravo con le forze dell’ordine. Non potevo abbandonare le mie sorelle.
Adesso sto tornando a casa e mentre percorro le strade polverose che conducono a Benin City, mi sembra di essere portata in trionfo. Non avrei mai creduto di poter essere tanto felice di riabbracciare la mia famiglia e la mia dignitosa povertà.
Ripenso per un attimo alle mie compagne, più sfortunate di me, che sono state picchiate brutalmente dai nostri protettori – che parola orrenda per degli aguzzini – o da qualche cliente depravato e violento oltre ogni limite umano.
Una di loro, di nome Kubra, venne frustata con una cintura e poi anche con la fibbia.
Io non porto quelle piaghe sulla pelle, ma so che sarà difficile cancellare le cicatrici che segnano nel profondo la mia identità smembrata. So che è assurdo, ma non riesco a sopprimere la vergogna e il senso di colpa per quanto ho vissuto. Dovrò conviverci fin quando non avrò accettato di non avere alcuna responsabilità.”

Filippo Mammoli

*Dati presi dal sito dell’UNIBS.it – Università degli Studi di Brescia

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